Monday, July 10, 2017

Intervista alla scrittrice Viola Di Grado

Some of you may have met young Italian writer Viola Di Grado at the Auckland Writers Festival last month, but if you missed her here is an exclusive interview with Matteo Telara for the Dante Blog.

Happy reading.

       

Pluripremiata autrice, non solo in Italia (con il suo primo romanzo Settanta acrilico trenta lana è stata la più giovane vincitrice del Premio Campiello Opera Prima e la più giovane finalista del Premio Strega) ma anche all’estero (ricordiamo, tra i vari riconoscimenti, il primo posto raggiunto dal suo secondo romanzo Cuore Cavo, nella lista Goodreads del Man Booker International Prize) e accreditata orientalista (si è laureata in lingue orientali all'Università di Torino e si è specializzata in filosofie dell'Asia Orientale alla University of London), Viola Di Grado è universalmente considerata una delle scrittrici più rappresentative degli ultimi decenni, un'autrice nella quale tematiche complesse (in particolare l'incomunicabilità, l'alienazione e l'illusorietà dell'io) e ricerca linguistica (che si avvale spesso di "sottili smottamenti anaforici" e di una varietà di linguaggi simbolici quali ad esempio quello degli ideogrammi) convergono nella realizzazione di opere d'indiscussa originalità.


1) Settanta acrilico trenta lana, pubblicato quando avevi 23 anni, ha vinto il Premio Campiello Opera Prima per “l’invenzione linguistica spinta fino alla visionarietà” e ha fatto di te e la più giovane finalista del Premio Strega. Com’è nato questo romanzo? E che intenzioni avevi (se ne avevi) quando l’hai scritto?

Volevo inventare qualcosa che non c’era. Utilizzare una lingua (il cinese) come personaggio di una storia. Stabilire nuove coordinate di tempo, un tempo irregolare che segue i moti della mente, che s’inceppa con il dolore e si riattiva con la vitalità. Volevo raccontare in forma narrativa una storia che
è anche linguistica: qual è la vita delle parole, come nascono e come si legano e cosa fanno di te.


2) Sempre riguardo al linguaggio, sono rimasto molto colpito dalla tua prosa, che secondo me è piena di bellezza, o meglio, come la Natura che racconti in Settanta acrilico trenta lana, “cospira bellezza” da ogni riga. In un’intervista su Farenheit hai affermato di voler dimenticare il linguaggio e hai citato il filosofo taoista Zhuangzi: “il linguaggio è una trappola per pesci: quando hai preso i pesci devi dimenticare la trappola” (mi vengono in mente certi pittori, come Matisse o Braque, che volevano liberare la pittura dal linguaggio pittorico...). Credi di esserci riuscita (intendo, a dimenticare la trappola)?

La ragione per cui ho studiato lingue così lontane dalla mia- cinese e giapponese- è proprio per costruire uno spazio neutro in cui l’approssimazione culturale legata al linguaggio si possa ridurre. In questo modo, ogni parola non sarebbe l’arnese abusato e angusto che racconta una specifica storia culturale fatta di abitudini e contesti ma una vera antenna per realtà universali. Molti lettori mi hanno parlato della sensazione di spaesamento che provano leggendomi, e anche i critici si sono soffermati sui miei “smottamenti linguistici”, dunque sì, credo di esserci riuscita. Ma la ricerca continua.

3) Trovo molto interessante il rapporto che i tuoi personaggi instaurano con le cose. L’impressione che si ha è che le cose si animino fino a divenire quasi umane, mentre gli esseri umani finiscano per assomigliare sempre più a cose: è un’impressione che condividi?

E’ uno dei miei obiettivi principali. Sei molto acuto. Non m’interessano i confini netti, ho un’idea di realtà in cui umano e non umano si compenetrino di continuo, e lo spirito possa risiedere nel più inanimato degli oggetti. Quest’idea si avvicina al sentire shintoista e infatti in Bambini di ferro in particolare, ambientato in Giappone e incentrato sull’intelligenza artificiale, volevo che l’umanità non si potesse mai trovare nei luoghi in cui ci aspetta di trovarla: gli esseri umani sono freddi e spesso non in contatto con le proprie emozioni, invece i robot sono incaricati di investire i bambini di un amore materno perfetto. E’ un romanzo di feticci, bambole e robot e umani cambiano continuamente postazione. E’ un nuovo realismo, non più antropocentrico.

4) Una delle paure della protagonista di Settanta acrilico trenta lana è la paura delle storie. La voce narrante di Cuore cavo, invece, sente il bisogno di raccontarle. Mi domando quanto di autobiografico ci sia in queste due componenti, o, meglio, se temi le storie quando le scrivi...

Non temo le storie, al contrario temo la mancanza di storie. Nel momento in cui dentro di sé si riesce a fare di qualcosa una storia, si è salvi.

5) In Settanta acrilico trenta lana alcuni vivi perdono l’abilità di parlare, mentre in Cuore cavo i morti perdono l’abilità di leggere. In Bambini di ferro invece alcuni protagonisti perdono la capacità di provare emozioni e sentimenti. Credi che sia da una qualche forma di mancanza che nasca il nostro bisogno di narrare?

Credo che la scrittura nasca sempre da una sorta di insoddisfazione, non per le caratteristiche di una vita specifica ma perché la realtà non è sufficiente. Per me non lo è mai stata. Inoltre, fin da piccola, mi sono sempre sentita più a mio agio all’interno delle storie che scrivevo che nello scambio verbale con i miei coetanei. Avevo persino deciso, a 8 anni, di non parlare mai più. Mi sembrava un inutile spreco di energie, non restava nulla nell’universo, e inoltre il mio linguaggio era troppo diverso da quello degli altri.

6) Una domanda sul mestiere del tradurre che ho fatto anche ad altri tuoi colleghi quali Silvia Pareschi e Marino Magliani: Calvino dice che “il passaggio da un testo letterario in un’altra lingua richiede ogni volta un qualche tipo di miracolo”. All’Auckland Writer Festival, dove ho avuto la fortuna di ascoltarti, hai dichiarato che “translating is like writing without writing”. È una definizione che mi è molto piaciuta perché dice qualcosa di complesso in una maniera semplice (secondo me è un po’ una tua caratteristica: si ha sempre l’impressione, quando parli, che nelle tue parole ci sia il 10% di quello che stai dicendo e che il resto vada intuito, come se fosse la parte sommersa di un iceberg...). Pensi che tradurre possa aiutare chi effettua la traduzione a scoprire territori inesplorati della propria lingua?

 Domanda interessante. Sì, assolutamente. Tradurre è una lotta entusiasmante tra la lingua intima dell’infanzia e la lingua adulta del lavoro. Dunque c’è un continuo confronto tra ciò che è primitivo, non pensato, legato al corpo e a ciò che è esterno, ragionato, legato al cervello. Insomma tradurre è una sorta di yin e yang dinamicissimo della scrittura.

7) Sempre all’Auckland Writer Festival hai dichiarato: “I don’t believe in roots, it just doesn’t work for me”. E nello stesso intervento hai aggiunto: “I hate boundaries, with my writing I want to show how everything is actually blurry”. È un’affermazione che non può passare inosservata in un’epoca come la nostra in cui tutti si richiamano spesso a radici, identità e tradizione. Potrei sbagliarmi ma credo che tu costituisca un esempio forse unico di cosmopolitismo letterario nella produzione nostrana: sei nata a Catania, hai vissuto a Torino, Leeds, Kyoto, Londra, adesso sei da qualche parte nei boschi della Sardegna... Ti consideri un’autrice italiana o, al di là della lingua in cui ti esprimi, pensi di non appartenere alla nostra ‘tradizione’ letteraria? Mi considero un’autrice dell’universo. 8) L’oriente e gli ideogrammi tornano in tutte le tue storie. Gli ideogrammi sono realtà chiuse ermeticamente che devono essere aperte e all’interno delle quali bisogna entrare per trovarvi un significato... Si può dire la stessa cosa dello scrivere? O meglio, per porre la stessa domanda in maniera differente: possiamo considerare la realtà come un complesso ideogramma che scrivendo cerchiamo di pronunciare?

Ho scritto un saggio breve proprio su questa cosa, su Origami (allegato La Stampa). Su come esercitarsi a vivere e scrivere la realtà come fosse un ideogramma, a caricare le parole di un senso maggiore come fossero tanti scrigni ideografici da schiudere e sperimentare.

9) Bambini di ferro racconta di un mondo dove la robotica, sebbene abbia fallito il suo obiettivo di sostituirsi agli umani, continua a essere presente in varie forme, alcune delle quali inaspettate (mi riferisco soprattutto allo sviluppo di una sorta di necrofilia/feticismo robotico) nella vita dei vivi. È questo il futuro che vedi o te ne sei servita solo per esigenze di fiction?

Per fortuna quale sia il vero rapporto tra realtà è scrittura non è chiaro a nessuno. E’ il mistero, più di tutto, che porta avanti sia la vita che la creazione.

10) Sia in Settanta acrilico trenta lana che in Cuore cavo compare la fotografia (le madri di entrambe le protagoniste utilizzano la macchina fotografica per entrare in contatto con la realtà), l’immagine fotografica secondo me è presente anche in Bambini di ferro (soprattutto in certi flash back che sembrano quasi istantanee mnemoniche). Un qualunque fotografo, alla domanda “what is the core of photography?” risponderebbe “light” (te lo scrivo in inglese perché così mi è capitato di chiederlo e questa è la risposta, chiara, netta, che mi è stata sempre data), non sono però ancora riuscito a trovare una risposta altrettanto netta riguardo alla letteratura..: what is the core of literature?

Heartbeats.